“ROMA COLONIALE” DI SILVANO FALOCCO E CARLO BOUMIS
“MA NOI GLI ABBIAMO COSTRUITO LE STRADE….” I MISFATTI IN AFRICA DEGLI “ITALIANI BRAVA GENTE”
di Alma Daddario
22/02/2022
Letto e recensito
Roma. “…Non è senza emozione e senza fierezza che, dopo sette mesi di aspre ostilità, pronuncio questa grande parola, ma è strettamente necessario che io aggiunga che si tratta della nostra pace, della pace romana che si esprime in questa semplice, irrevocabile, definitiva proposizione: l’Etiopia è italiana!”. Così il Duce, in una piazza Venezia affollata e plaudente dava inizio al colonialismo, che avrebbe fatto dell’Italia un impero.
E' durato settanta anni il colonialismo italiano. E' iniziato dal 1882 in Eritrea, dal 1889 ha coinvolto la Somalia, dal 1911 la Libia, dal 1935 l'Etiopia, ed è andato avanti sino alla caduta del fascismo nel 1943.
Il Colonialismo spiega il pregiudizio razzista che ancora oggi pervade la società italiana, un razzismo ordinario che può esplodere in determinate condizioni in episodi terribili, o covare sotto la cenere. Purtroppo il mito degli italiani brava gente ancora oggi persiste più forte dei fatti, e li silenzia. La cancellazione della memoria è un evento grave e riguarda tutti: vecchie e nuove generazioni.
Una cancellazione fomentata da falsi miti che hanno contribuito a nascondere la realtà dei fatti, come quello, comune a tutti i colonialismi, di aver contribuito a portare la civiltà, debellato la barbarie, costruito strade e ospedali. Ma strade e ospedali non avrebbero mai potuto compensare i massacri, la cancellazione di etnie e culture, la perdita di indipendenza di milioni di persone al mondo.
Per indicare una situazione confusa e caotica in italiano ancora oggi si utilizza la parola “ambaradan”, e molti non sanno che deriva da uno dei più spaventosi massacri commessi dall’Italia nel corso della sua storia. Amba Aradan è il nome di un altopiano montuoso sito in Etiopia, dove nel febbraio del 1936 l’esercito italiano sterminò circa ventimila persone, tra soldati e civili, nel corso della guerra voluta dal regime fascista per piegare la resistenza degli abitanti. In quella occasione i militari sganciarono sessanta tonnellate di iprite sulle colonne dei resistenti in ritirata e sulla popolazione, violando anche la convenzione di Ginevra del 1928 che bandiva l’uso di armi chimiche.
Una vicenda avvolta per anni nel buio totale, un’amnesia storica, una delle pagine più buie del colonialismo italiano. Più che di una battaglia, si trattò di una vera e propria azione criminale a danno anche della popolazione inerme. Volendo anticipare la conquista in Etiopia nel 1935, dopo varie battaglie e la sconfitta di Adua da parte dell’esercito italiano, Mussolini ordinò ai generali Graziani e Badoglio di impiegare gas asfissianti e vescicanti contro le popolazioni civili: iprite, fosgene o arsina.
Il 22 e 23 Dicembre tre squadriglie aeree rovesciarono sull’Etiopia tonnellate di bombe esplosive, alcune cariche di gas, che provocarono morti e feriti da ustioni. Quella che alcuni indigeni avrebbero descritto come “una pioggia bruciante”. Di questi eventi, così come le testimonianze di veri e propri lager realizzati per sfruttare e torturare prigionieri civili e non, donne e uomini di ogni età e bambini, la storia ufficiale, quella che è da sempre scritta dai vincitori, poco o nulla racconta.
Poco e nulla è presente nella toponomastica della capitale dell’impero: Roma, come fanno notare i nostri autori, seppure se ne scorgono le tracce disseminate nei vari quartieri. “Passeggiando tra le vie del quartiere africano o alzando la testa a guardare la grande mappa che troneggia nel salone della GIL a Trastevere – si racconta nel libro – dovremmo ricordare che i nomi esotici che vi compaiono sono quelli di luoghi dove gas mortali come iprite, fosgene e arsina – hanno ucciso migliaia di persone inermi.
Andrebbe scritto, letto e ricordato, come oggi pretendiamo si faccia alle Fosse Ardeatine o a Sant’Anna di Stazzema”. Tra i miti che hanno contribuito all’occultamento dei crimini commessi dai nostri, e che tutt’ora fanno parte dell’immaginario collettivo citiamo modi di dire che ne sintetizzano e giustificano il senso: “Quelle che abbiamo occupato erano terre di nessuno”, “Abbiamo portato il dono della civiltà”, “In Africa è tutta un’altra cosa” – questa per giustificare la violenza e la sopraffazione dei colonizzatori, le torture e gli stupri – “Siamo stati i meno peggio”, “Abbiamo costruito le strade” – in realtà le strade servivano per spostare più velocemente le truppe.
Oltre a questo, la propaganda mediatica del ventennio, che si è avvalsa anche di rappresentazioni teatrali, canzoni, fumetti che esasperavano i tratti stereotipati dell’africano selvaggio, vile e inferiore, contrapposto alla baldanza e al coraggio dell’italiano eroico e conquistatore, avrebbero fatto il resto.
Anche i romanzi, e il nostro cinema contemporaneo hanno una parte di colpa se ancora non è stata fatta chiarezza. Al contrario di quanto è successo per il nazismo in Germania, da noi non è stato realizzato nessun film che raccontasse con obiettività i fatti. Ha taciuto il cinema, ha taciuto la letteratura, hanno taciuto gli intellettuali di regime e non.
Unico esempio da poter citare: “Omar Mukhtar, il leone del deserto”, film anticolonialista presentato a New York nel 1981, e in seguito a Cannes, con Anthony Quinn, Oliver Reed, Irene Papas e Rod Steiger, film censurato in Italia e mai proiettato poiché ritenuto dalla censura lesivo della dignità dell’esercito italiano.
L’accurata documentazione di Silvano Falocco e Carlo Boumis in “Roma coloniale”, edito da Le Commari per la collana “Quaderni di memoria civile”, ci racconta i retroscena della mitizzazione coloniale italiana, con dovizia di particolari anche raccapriccianti, come le descrizioni delle torture messe in atto, degli stupri, delle esecuzioni sommarie, che demoliscono ogni tipo di falsa giustificazione all’invasione. Sarebbe tuttavia riduttivo definire questo libro “saggio storico”: lo stile narrativo accattivante, lineare ma emozionante, ha il pregio di rendere la lettura agile, partecipativa, e questo non può se non giovare alla memoria. E’ un tentativo pratico di rendere giustizia attraverso la narrazione, che diventa monito, oltre che memoria.
ROMA COLONIALE
Di Silvano Falocco e Carlo Boumis
Edizioni Le Commari
E' durato settanta anni il colonialismo italiano. E' iniziato dal 1882 in Eritrea, dal 1889 ha coinvolto la Somalia, dal 1911 la Libia, dal 1935 l'Etiopia, ed è andato avanti sino alla caduta del fascismo nel 1943.
Il Colonialismo spiega il pregiudizio razzista che ancora oggi pervade la società italiana, un razzismo ordinario che può esplodere in determinate condizioni in episodi terribili, o covare sotto la cenere. Purtroppo il mito degli italiani brava gente ancora oggi persiste più forte dei fatti, e li silenzia. La cancellazione della memoria è un evento grave e riguarda tutti: vecchie e nuove generazioni.
Una cancellazione fomentata da falsi miti che hanno contribuito a nascondere la realtà dei fatti, come quello, comune a tutti i colonialismi, di aver contribuito a portare la civiltà, debellato la barbarie, costruito strade e ospedali. Ma strade e ospedali non avrebbero mai potuto compensare i massacri, la cancellazione di etnie e culture, la perdita di indipendenza di milioni di persone al mondo.
Per indicare una situazione confusa e caotica in italiano ancora oggi si utilizza la parola “ambaradan”, e molti non sanno che deriva da uno dei più spaventosi massacri commessi dall’Italia nel corso della sua storia. Amba Aradan è il nome di un altopiano montuoso sito in Etiopia, dove nel febbraio del 1936 l’esercito italiano sterminò circa ventimila persone, tra soldati e civili, nel corso della guerra voluta dal regime fascista per piegare la resistenza degli abitanti. In quella occasione i militari sganciarono sessanta tonnellate di iprite sulle colonne dei resistenti in ritirata e sulla popolazione, violando anche la convenzione di Ginevra del 1928 che bandiva l’uso di armi chimiche.
Una vicenda avvolta per anni nel buio totale, un’amnesia storica, una delle pagine più buie del colonialismo italiano. Più che di una battaglia, si trattò di una vera e propria azione criminale a danno anche della popolazione inerme. Volendo anticipare la conquista in Etiopia nel 1935, dopo varie battaglie e la sconfitta di Adua da parte dell’esercito italiano, Mussolini ordinò ai generali Graziani e Badoglio di impiegare gas asfissianti e vescicanti contro le popolazioni civili: iprite, fosgene o arsina.
Il 22 e 23 Dicembre tre squadriglie aeree rovesciarono sull’Etiopia tonnellate di bombe esplosive, alcune cariche di gas, che provocarono morti e feriti da ustioni. Quella che alcuni indigeni avrebbero descritto come “una pioggia bruciante”. Di questi eventi, così come le testimonianze di veri e propri lager realizzati per sfruttare e torturare prigionieri civili e non, donne e uomini di ogni età e bambini, la storia ufficiale, quella che è da sempre scritta dai vincitori, poco o nulla racconta.
Poco e nulla è presente nella toponomastica della capitale dell’impero: Roma, come fanno notare i nostri autori, seppure se ne scorgono le tracce disseminate nei vari quartieri. “Passeggiando tra le vie del quartiere africano o alzando la testa a guardare la grande mappa che troneggia nel salone della GIL a Trastevere – si racconta nel libro – dovremmo ricordare che i nomi esotici che vi compaiono sono quelli di luoghi dove gas mortali come iprite, fosgene e arsina – hanno ucciso migliaia di persone inermi.
Andrebbe scritto, letto e ricordato, come oggi pretendiamo si faccia alle Fosse Ardeatine o a Sant’Anna di Stazzema”. Tra i miti che hanno contribuito all’occultamento dei crimini commessi dai nostri, e che tutt’ora fanno parte dell’immaginario collettivo citiamo modi di dire che ne sintetizzano e giustificano il senso: “Quelle che abbiamo occupato erano terre di nessuno”, “Abbiamo portato il dono della civiltà”, “In Africa è tutta un’altra cosa” – questa per giustificare la violenza e la sopraffazione dei colonizzatori, le torture e gli stupri – “Siamo stati i meno peggio”, “Abbiamo costruito le strade” – in realtà le strade servivano per spostare più velocemente le truppe.
Oltre a questo, la propaganda mediatica del ventennio, che si è avvalsa anche di rappresentazioni teatrali, canzoni, fumetti che esasperavano i tratti stereotipati dell’africano selvaggio, vile e inferiore, contrapposto alla baldanza e al coraggio dell’italiano eroico e conquistatore, avrebbero fatto il resto.
Anche i romanzi, e il nostro cinema contemporaneo hanno una parte di colpa se ancora non è stata fatta chiarezza. Al contrario di quanto è successo per il nazismo in Germania, da noi non è stato realizzato nessun film che raccontasse con obiettività i fatti. Ha taciuto il cinema, ha taciuto la letteratura, hanno taciuto gli intellettuali di regime e non.
Unico esempio da poter citare: “Omar Mukhtar, il leone del deserto”, film anticolonialista presentato a New York nel 1981, e in seguito a Cannes, con Anthony Quinn, Oliver Reed, Irene Papas e Rod Steiger, film censurato in Italia e mai proiettato poiché ritenuto dalla censura lesivo della dignità dell’esercito italiano.
L’accurata documentazione di Silvano Falocco e Carlo Boumis in “Roma coloniale”, edito da Le Commari per la collana “Quaderni di memoria civile”, ci racconta i retroscena della mitizzazione coloniale italiana, con dovizia di particolari anche raccapriccianti, come le descrizioni delle torture messe in atto, degli stupri, delle esecuzioni sommarie, che demoliscono ogni tipo di falsa giustificazione all’invasione. Sarebbe tuttavia riduttivo definire questo libro “saggio storico”: lo stile narrativo accattivante, lineare ma emozionante, ha il pregio di rendere la lettura agile, partecipativa, e questo non può se non giovare alla memoria. E’ un tentativo pratico di rendere giustizia attraverso la narrazione, che diventa monito, oltre che memoria.
ROMA COLONIALE
Di Silvano Falocco e Carlo Boumis
Edizioni Le Commari