“L’ATTESA DELL’ALBA”, INTERVISTA A FRANCESCO CARINGELLA
NEL SUO ULTIMO ROMANZO L’AUTORE AFFRONTA IL DRAMMATICO TEMA DEL “FINE VITA”
CRISTINA MARRA
25/03/2025
LE INTERVISTE DI CRISTINA

La vita di Alberto, Sandra e della figlia Francesca cambia dalla notte dell’incidente avvenuto cinque anni prima e Filippo, che non si era mai occupato di eutanasia, e fino ad allora considerava una parola vuota “ora doveva riempire di contenuto quel termine sfuggente per dare a una moglie angosciata la risposta che le aveva promesso”. Tornano i casi di Englaro, Welby e DJ Fabo e l’autore fa compiere a Filippo un percorso di ricerca, di studio ma anche di confronto e condivisione della scelta giusta, delle condizioni per affrontarla, e della volontà di amare la vita. Una vita costellata di successi quella di Filippo, cinquantenne ambizioso che accoglie la richiesta di aiuto di Sandra che comporta per lui anche rimettersi in gioco come professionista e come uomo, far crollare delle certezze, cedere al cuore e aggrapparsi a coloro che nella sua vita gli sono sempre stati vicini e da esempio. Caringella non delude mai e ancora una volta la fragilità dell’essere umano come quella dell’uccellino in copertina sospesa tra il cielo e il sottile ramo diventa una corsa (tanto cara all’autore e a Filippo) per raggiungere il traguardo della scelta.
Francesco, con L’attesa dell’alba affronti il tema dell’eutanasia, perché questa scelta nel tuo percorso narrativo? Quanto è stato difficile scrivere la storia?

Cara Cristina, difficile dire se io ho scelto il tema o se il tema ha scelto me. Certo, confesso d’essermi pentito amaramente della decisione in questi tre anni di gestazione. Ho capito sulla mia pelle perché nessun autore italiano ha mai scalato la montagna dell’eutanasia e del suicidio assistito. Mi sono sentito a più riprese impotente e inutile di fronte a un dilemma che mette a nudo il significato della vita, il mistero della morte e la stessa nozione di uomo. Un dramma che è, al tempo stesso, e in egual misura, religioso, etico, filosofico, familiare, sanitario e giuridico. Alla fine non ho mollato e, grazie a inestimabili compagni di viaggio che m’hanno sempre tenuto la mano, ho portato a compimento la fatica. Spero di avere fatto bene.
Con Alberto Martinelli , la moglie Sandra De Santis e l’avvocato Filippo Santini, i tre protagonisti della storia, offri i diversi punti di vista?
La storia è corale perché il dramma del fine vita non investe solo il diretto interessato, ma devasta anche le esistenze di chi gli sta accanto. È’ una tragedia familiare, non solo un tormento personale. Ognuno dei protagonisti reagisce a modo suo, in ossequio alla legge per cui nelle malattie e nelle devastazioni gli uomini abbandonano le maschere, e mettono a nudo la loro vera anima. Tutti sono così impegnati in una lotta tra la forza dell’amore altruistico e l’istinto egoistico di sopravvivenza. E tutti sono percorsi da quella straordinaria voglia di vita che ci pervade quando guardiamo in faccia la morte.
Filippo Santini è un avvocato di successo, vie a Campo de’ fiori ama le donne “ma non si era mai innamorato”. Cosa cambia in lui quando riceve Sandra allo studio?
Succede quello che tutti noi aspettiamo nelle vita quando le giornate scorrono uguali e le ore si srotolano senza senso. Speriamo che un fuoco ci sorprenda e ci faccia sentire finalmente vivi, anche solo per un attimo. L’uragano travolge Filippo in uno pigro pomeriggio di fine luglio, nel suo studio. All’improvviso la maniglia della porta gira, ma a muoverla non è stata la sua mano. Filippo indietreggia per non essere investito in piena faccia dal legno massiccio della porta. Gli appare, come per incanto, una donna minuta, corti capelli biondi indiavolati, occhi azzurri nascosti da occhiali tondi con un’imponente montatura nera. Il volto pallido, senza un filo di trucco, a pochi centimetri dal suo. Labbra carnose e ben disegnate. Sente il respiro della donna, convulso e affannoso. Non e’ bella, e’ bellissima.
Coscienza e legge, etica e diritto, il romanzo si muove tra questi due opposti?
Sartre ha scritto che un giudice è un uomo travestito da Dio. Svolge un compito divino che ha a che fare con obiettivi irraggiungibili quali la verità, la giustizia, la pena e il futuro, ma lo fa con la debolezza, l’imperfezione, gli interesse, le ambizioni e la vanità di ogni uomo. C’è uno scarto impressionante tra il fine e i mezzi, tra l’ambizione assoluta e le forze esigue, Ecco, il giudice è uno strano personaggio che, come ricorda Dante Troisi, nel meraviglioso e amarissimo “Diario di un giudice”, cerca di essere all’altezza di un compito che lo sovrasta e lo atterrisce.
Se questo è vero in generale, lo è in particolare quando il magistrato deve affrontare un processo ai danni di un uomo che abbia aiutato un sofferente a morire o gli abbia pietosamente tolto la vita. In questo caso, in questo particolarissimo caso, la giustizia non lo può essere un tema puramente tecnico da affrontare con i codici e le pandette, ma finisce per interrogare la visione della vita, l’essenza dell’uomo e il profumo della libertà. Quando il diritto interpella l’uomo sulla sua personalissima concezione dell’esistenza, diventa difficile scindere la logica della tecnica dalla grammatica dei sentimenti.
Vite sospese sono quelle di Alberto bloccato nel corpo, di Sandra “il dolore l’aveva resa adulta”, lo è anche quella di Filippo?
Certamente si’. Anche Filippo viene ingoiato dalla vicenda umana. Per la prima volta, non lotta per difendere un interesse, ma per affermare un valore che appartiene a tutti e che ha a che fare con la libertà e con la dignità.
Fine della vita e inno alla vita, il romanzo è una storia di vita e di inno alla vita? Fin dove può spingerci il sentimento dell’amore?
E’ un inno alla vita perché lo spettro della morte ci fa amare in modo pieno e assoluto il significato di ogni attimo. Per citare il “Cantico dei cantici”, l’amore e’ forte come la morte.
Per Filippo la giustizia era “febbre,voglia,fame”, giustizia e verità coincidono?
La giustizia non può essere verità. Sarebbe già tanto se fosse voglia di verità.
CRISTINA MARRA