INTERVISTA A MATTEO COLOMBO AUTORE DEL GIALLO “Q.B.”

ORIGINALE INDAGINE DOVE LE VITTIME, I SOSPETTATI E GLI INVESTIGATORI DIVENTANO INGREDIENTI LETTERARI DI UN MENU NARRATIVO CHE RUOTA INTORNO AL CRIMINE.

di Cristina Marra 11/12/2019
Le interviste di Cristina
qbReggio Calabria. Q.B. è la dose senza una indicazione precisa sulla quantità esatta dell’ingrediente da usare, ma quel quanto basta può diventare “un pizzico” segreto o quantomeno quello che, se ben dosato, fa la differenza di gusto in una pietanza, dando la libertà al cuoco di decidere.

Ma Q.B. può anche essere altro e trasformarsi in un menu-giallo con delitti che elimina cuochi di fama come se scegliesse le portate in una carta al ristorante e ce lo racconta brillantemente Matteo Colombo che, dietro quelle due lettere puntate, nasconde le iniziali di un nome, Quinto Botero, chef stellato e detective per autodifesa. Numero uno della collana editing free “La porta dei dèmoni” di edizioni unicopli diretta dal geniale Flavio Santi, il romanzo è una originale indagine sociale attraverso il mondo, le suggestioni e ritualità della cucina, in cui le vittime, i sospettati, gli investigatori diventano ingredienti letterari di un menu narrativo che ruota intorno al crimine.

La cucina, nella penna di Colombo, che come un cuoco esperto, dosa bene tutto e cuoce al punto giusto, diventa vittima, carnefice e giustiziere. Morte e creazione culinaria si intrecciano in una trama ben congegnata e mai banale in cui si muovono un serial killer, il cuoco-detective, un commissario di polizia e lo sguardo-specchio di una delle vittime che segue le indagini. Ambientato alle porte del Natale, il giallo è una eccellente prova narrativa per l’esordiente Colombo che inserisce indizi piu’ o meno celati che omaggiano i grandi autori del genere, tra tutti Agatha Christie.
 Matteo, esordisci in una collana nuova, cosa ti ha spinto a raccontare una storia di crimini?

Volevo che in libreria si potesse trovare una storia come questa e, dato che ancora non c’era, me la sono scritta da solo. In fondo, sono sempre le storie che intercettano i loro autori, non è vero il contrario. Il genere invece l’ho scelto io. Mi interessava mettermi alla prova con il giallo che ha una struttura codificata, rigida. Si parte dalla fine, dalla morte, e si procede a ritroso ricostruendo la vita della vittima (o delle vittime) fino a giungere alla verità. Ecco, mi affascinava seguire quel movimento. Io non sono uno di quei lettori che lui “solo storie di crimini”, ma era giunto il momento di superare i miei limiti. Sentivo l’urgenza di procedere su un percorso segnato, di ritornare sui miei passi, proprio come fa un bravo detective.
 
Q.B. è un cuoco famoso che va controcorrente e non cucina per i critici ma per la gente. Diventa detective dilettante ma scopre di avere talento investigativo. Applica all’indagine lo stesso metodo che usa per preparare una ricetta?
 
Sì, non solo all’indagine, ma alla sua intera esistenza. Quinto Botero è un personaggio antipatico, adorato dal pubblico come lo chef del momento, ossessionato dalla sua stessa intelligenza. Smonta e rimonta il mondo come se stesse preparando una zuppa di ostriche o una torta al cioccolato. Risolve l’enigma (e anche un po’ se stesso) stando ai fornelli. Lontano da lì si sente un pesce fuor d’acqua tant’è che quando sua moglie, Giulia, gli chiede di portarla fuori a cena, spesso arriva fin davanti alla porta del locale in cui hanno prenotato e poi non entra. È più forte di lui.
 
Crimini e cucina sono un binomio vincete sin dalle detective stories. Nel tuo romanzo il cibo diventa “un’avventura intellettuale” ma è anche la chiave per chiarire il mistero?
 
Non c’è dubbio. Tutto il romanzo è costruito perché il cibo sia protagonista, diventi metafora,
 
Il killer seriale è “braccato” da tre personaggi, tre punti di vista e tre modi di fronteggiarlo. Toni, la prima vittima diventa anche il testimone oculare della vita dell’assassino. Perché oltre al commissario Stoppani e a Botero hai scelto proprio una vittima per raccontare il killer?
 
Perché il suo punto di vista è unico e straordinario. È coinvolto sempre, anche se è stato ucciso. E ha motivazioni ben più importanti di quelle di tutti gli altri personaggi. Ogni volta che leggo un giallo, mi ritrovo a domandarmi: chissà come “l’avrà presa” la vittima? Chissà che direbbe, se potesse parlare? In “Q.B.” ha anche lei facoltà di parola. Infine, mi piaceva dare ritmo alla narrazione alternando due voci: quella di Botero, che è un narratore interno, e quella di Toni che è il più classico dei narratori esterni. Direi che più narratore esterno di così si muore, infatti è morto.
 
Botero afferma che la cucina è “un mezzo per interpretare il mondo” ma lo è anche per conoscerlo e scoprirlo?
 
Per lui scoprire il mondo significa mescolarlo, sminuzzarlo, amalgamarlo, portarlo a ebollizione… Qualche volta ha anche la fortuna di inventarsi la ricetta giusta per gustarlo e per essere soddisfatto e appagato come dopo un’ottima cena. Ma, soprattutto, la cucina nella sua vita gli è servita per capire che la parte più interessante di ciò che gli sta attorno, è l’errore. È in un errore che le persone si rivelano. È con un errore che in cucina nascono nuovi abbinamenti, fino a un attimo prima insperati. Ed è da un errore che si riparte per un altro pranzo, un altro menù, insomma, un altro giro.
 
Che rapporto hai tu con la cucina e ovviamente con la narrativa di genere poliziesco?
 
La (buona) cucina per me è un inno alla gioia. Apprezzo la creatività e il sacrificio che si nascondono nella preparazione di ogni ottimo piatto. Mi colpiscono, anche, le invenzioni dei grandi chef, ma fino a un certo punto. Troppi fuochi d’artificio, in cucina, mi ubriacano. E poi, certi cuochi, sono diventati delle star e hanno perso per strada il senso di ciò che fanno. Nel mio romanzo, dopo 200 pagine di ricette ricercate, Botero si concede il lusso di farsi un piatto di uova con il pomodoro. Perché la cucina per me è un mezzo per ritornare a riappropriarci delle nostre radici, delle cose semplici che ci portava in tavola nostra nonna. Quanto al genere poliziesco, come ho detto, è uno dei tanti generi che frequento da lettore: un bravo scrittore può dare il meglio di sé e far capire quanto vale proprio in un giallo. Nel mio, per esempio, ho voluto fare un omaggio a una delle mie autrici preferite: Agatha Christie. Le ricette che compaiono in “Q.B.” si riferiscono ai piatti che la Christie ha citato qua e là nei suoi libri.
 
I luoghi del romanzo sono bei ristoranti, come li hai scelti e quanto quei luoghi diventano personaggio?
 
Li ho scelti e descritti unendo tante suggestioni e immagini che ho raccolto in diversi ristoranti in cui sono stato da cliente. Un solo locale, per la posizione, è un chiaro riferimento a un posto che esiste realmente. Vi dico solo che si trova a picco sul mare… se leggerete il romanzo, lo scoprirete da soli. Ciò che conta è che il ristorante sia un luogo capace di stimolare la mia fantasia. Basti pensare alle tante storie che lì si incrociano; alle persone che si incontrano e, subito, si lasciano; al linguaggio che adottano i cuochi, i camerieri, i commensali. Come per i porti, come per le stazioni ferroviarie, come per gli hotel, anche un ristorante è un ottimo ambiente per chi vuol fare questo mestiere. Resta un ambiente però: seppur carico di seduzione (il Beckett di Botero non è semplicemente un locale, è il suo palcoscenico) non diventa mai un personaggio.

Hai pensato a una serialità?

Sono i tanti lettori che hanno apprezzato il carattere e la vicenda di Quinto Botero che mi stanno portando a pensarci. La mia storia non è nata per avere un seguito. Anzi, ho in mente qualcosa di diverso per il prossimo romanzo. Certo… se me lo chiede la gente magari potrei ritornare a sedermi a un tavolo di quel grande chef…

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