INTERVISTA A FABRIZIO ESCHERI, AUTORE DI “LA STRANTULIATA”
UN FELICE ESORDIO SULLO SFONDO DELLA SICILIA RURALE DEGLI ANNI TRENTA.
di Cristina Marra
07/05/2021
Le interviste di Cristina
“La strantuliata” di Fabrizio Escheri edito da Ianieri, nella nuova collana Le dalie nere diretta da Raffaella Catalano e Giacomo Cacciatore, da pochi giorni in libreria è già in ristampa grazie al successo che il passaparola dei lettori gli ha accordato facendolo diventare un giallo capace di dare davvero uno scossone (strantuliata in siciliano) di novità nel folto gruppo di romanzi di genere nostrani.
Escheri, al suo esordio narrativo ambientato nella Sicilia rurale degli anni Trenta, si ispira ai cantastorie, raccoglie ricordi, memorie, testimonianze e racconti dagli anziani dei paesi delle Madonie che frequenta sin dall’infanzia e li tramuta in un racconto lungo e in prima persona impregnato di atmosfere incantevoli della natura florida e generosa ma anche quelle cupe e dure dei lavori nei campi, dei latifondisti sfruttatori, dei nobili prepotenti e di quei silenzi che diventano omertà e che soltanto uno scossone forte, una strantuliata potrebbe trasformare in parole, in testimonianze e quindi in verità. Il doppio risultato che uno scossone inaspettato può provocare, l’autore lo racconta nel suo giallo con protagonista l’autista della corriera che quotidianamente percorre la tratta da Licu a Sperlinga. Ischeri si sofferma sulla ripetitività dei gesti e delle incombenze, sui volti conosciuti e familiari che l’autista incrocia ogni giorno.
Può la scoperta di un cadavere rinvenuto lungo la strada cambiare l’andamento di quella quotidianità e dare voce ai silenzi dolorosi e imposti? Abbandonato al centro della strada avvolto in uno scapolare c’è il cadavere di Don Tano. L’autista lo riconosce e percepisce una presenza nei dintorni. Da quel momento comincia per lui un nuovo percorso di solitudine, senza Berta, così chiama la sua corriera, ma con un intero paese che lo giudica e sta zitto. Il protagonista, spinto dal forte senso di giustizia che la sua divisa da servitore dello stato gli infonde non si piega alle regole dell’omertà.
La strantuliata sarà forte e gli effetti distruttivi perché sarà a catena e coinvolgerà ogni personaggio, in una coralità narrativa sapientemente gestita dall’autore. Ogni personaggio svelerà il suo lato oscuro, il suo segreto che rientra in un quadro criminale accettato da tutti.
Fabrizio, mi racconti quando hai deciso di scrivere e cosa ti ha spinto a dedicarti al genere giallo?
Negli anni ho sempre scritto, utilizzando la scrittura come una sorta di medicina contro l’eccessivo stress derivante dalla mia attività professionale e dagli impegni istituzionali. Non avevo, però, mai pensato di pubblicare quanto scrivevo, limitando ad una stretta cerchia di amici la diffusione dei miei racconti. Durante il lockdown, per contrastare la noia della inattività forzata, ho cominciato a pubblicare su Facebook delle brevi storie che ho intitolato Le Storie della quarantena, riscontrando con mia sorpresa l’apprezzamento da parte dei miei contatti e non solo. In estate, durante le brevi vacanze che abitualmente trascorro nelle Madonie, mi sono cimentato in una storia più lunga e ho scritto La strantuliata. Anche in questo caso, senza alcuna ambizione di pubblicare il romanzo. Come in passato, pensavo di conservare il file con il racconto nell’hard disk del mio computer. Casualmente, però, mi sono imbattuto in un post di Raffaella Catalano e Giacomo Cacciatore in cui comunicavano che avrebbero curato una nuova collana di romanzi gialli per l’editore Ianieri. Ho inviato la sinossi del mio libro ed è piaciuto. Da lì la pubblicazione. Ho scelto il genere giallo perché ho sempre amato il genere, in particolare i “gialli di indagine” costruiti attorno ad un delitto di cui il lettore è chiamato a ricostruire colpevoli, moventi, e a risolvere gli enigmi.
Il romanzo è siciliano di ambientazione, racconti la Sicilia dei latifondi degli anni Trenta, com’ è stato il tuo metodo di ricerca storica e del linguaggio?
Quella descritta nel romanzo è una parte specifica della Sicilia, ossia quella rurale interna, la cd. Sicilia del grano, in cui il latifondo è stato presente fino a pochi anni fa. La strantuliata è ambientata, in particolare, al confine tra le Madonie (dove è allocata Licu) e i Nebrodi (a cui appartiene Sperlinga). E’ la zona del dialetto gallo italico, quella da cui proveniva il personaggio del Gran Lombardo di Conversazione in Sicilia di Vittorini. Una zona molto particolare, rispetto ad altre aree dell’isola. La frequento sin da bambino, perché i miei nonni materni erano originari di Gangi, un paese al confine tra le Madonie e i Nebrodi. Mia nonna, la Gna Mauruzza a cui è dedicato il libro, immancabilmente si trasferiva lì dalla città ad inizio estate e vi rimaneva fino alle piogge autunnali. Io, da piccolo, dopo le vacanze estive al mare, venivo consegnato dai miei genitori alla nonna e restavo in sua compagnia fino all’inizio della scuola, che era ad ottobre. In quel periodo ascoltavo le storie, raccontate con quel dialetto dolce tipico della zona, dagli anziani che avevano vissuto l’epopea dei briganti e del Prefetto Mori (Il prefetto di Ferro) mandato da Mussolini a debellare la piaga del brigantaggio. Sono racconti, rimasti in qualche recondito spazio della memoria, che sono riemersi la scorsa estate, scrivendo la strantuliata.
I capitoli sono brevi e incisivi e terminano con un detto un proverbio in dialetto che rappresenta la summa dei concetti e degli avvenimenti che racconti. Quanto queste espressioni tipiche di un linguaggio orale che ancora persiste ti hanno ispirato?
Negli anni ho annotato varie espressioni dialettali. In particolare mi hanno sempre incuriositi i detti popolari ed i proverbi, che contengono pillole di saggezza che la tradizione orale ha tramandato nel tempo. Ho voluto utilizzarli come chiave di comprensione del capitolo e di collegamento con il capitolo successivo. Credo che sia una delle scelte più apprezzate dai lettori, per quello che sto riscontrando.
All’epoca era molto forte il senso di responsabilità che anche la divisa da autista della corriera imponeva. Blando è un uomo solo, che rapporto ha Blando con la corriera che chiama Berta?
Blasco Blando è un uomo solo, vive in un periodo ed in una zona in cui la prepotenza dei potenti (baroni, campieri ma anche uomini di Stato) la fa da padrone. Non ha più una famiglia che lo protegga, non si fida delle istituzioni che appaiono lontane dalla sua realtà. Ha creduto, in realtà, in quelle istituzioni andando a testimoniare sull’omicidio, ma ha dovuto rendersi conto che quelle istituzioni, idealmente impersonate dall’immagine del Re che sovrasta la scrivania del maresciallo, in realtà si manifestano attraverso persone (il tenente, il giudice, lo stesso maresciallo) non sempre all’altezza delle sue aspettative di giustizia. Ha sviluppato un rapporto quasi affettivo con quella sua compagna di viaggio, un mezzo meccanico a cui ha dato anche un nome per personalizzarla. E’ lei la testimone muta di tutta la vicenda, al contempo palcoscenico e protagonista del racconto.
Scritto in prima persona il giallo è una confessione, ma anche un urlo contro l’omertà in tutte le sue espressioni?
Ho scelto di scrivere il romanzo in prima persona, rivelando il nome del narratore solo a fine storia, perché l’ho immaginato come un racconto fatto tanti anni dopo, come quello di Marco Polo a Rustichello da Pisa. Non sveliamo di più per non svelare il finale ai lettori, ma è evidente che il narratore è un uomo disilluso, che ha creduto nella giustizia venendo travolto dal potere e dalla prepotenza, un uomo che si pente di non avere seguito il consiglio dei suoi avi, che gli suggerivano di “farsi i fatti propri”. Blasco mi ricorda l’autista della Volvo ferma alla stazione di Monterosso di “Una storia semplice” di Sciascia che finisce con il pentirsi di aver testimoniato o, se vogliamo, ancor di più Piero Nava, il rappresentante di commercio testimone dell’omicidio Livatino, la cui vita è stata stravolta dall’aver testimoniato quanto aveva visto.
Il maresciallo Li Pira, il tenente Leone Asvisio, il pretore Caputo, quanto o in cosa sono diversi questi uomini di legge?
Sono tre rappresentanti dello Stato che impersonano tre differenti atteggiamenti, ciascuno negativo a modo suo. Li Pira è il classico maresciallo dei carabinieri di paese che conosce bene la realtà in cui opera, si concentra sui reati minori senza smuovere “il gioco grande”. E’ un onesto servitore dello Stato ma non vuole rogne, cerca di fare il suo senza smania di grandezza. Il Tenente Leone Asvisio è l’inquirente ambizioso, quello che cerca visibilità per fare carriera. Sempre ossequioso con i potenti e rigido con i deboli, coglie subito l’opportunità dell’indagine per mettersi in evidenza, cercando clamore al fine di porre sé stesso al centro della scena, annebbiato dalla sua stessa ambizione. Il Pretore Caputo è un magistrato a fine carriera, ha già dato il meglio di sé ottenendone in cambio la punizione del confino alla remota pretura di Nicosia. E’ un uomo di cultura, amante dei classici, ma ha ormai dimenticato quel “fuoco interiore” che probabilmente lo ha spinto a scegliere la carriera di giudice. Non cerca la verità ma la “verità meno scomoda” pur di non avere ulteriori problemi.
La luna piena, i campi di grano, la natura e i paesaggi sono partecipi della storia?
Qualcuno mi ha detto che il vero protagonista del romanzo è il paesaggio, fatto da campi di grano con contadini curvi che non alzano lo sguardo. Credo che sia abbastanza vero. I primi capitoli del romanzo sono volutamente scritti come un lungo e lento piano sequenza sul paesaggio, in cui i protagonisti si muovono mentre tutto attorno a loro è immobile. Una immobilità che è sintomatica di uno stato di cose, come si vedrà alla fine.
Escheri, al suo esordio narrativo ambientato nella Sicilia rurale degli anni Trenta, si ispira ai cantastorie, raccoglie ricordi, memorie, testimonianze e racconti dagli anziani dei paesi delle Madonie che frequenta sin dall’infanzia e li tramuta in un racconto lungo e in prima persona impregnato di atmosfere incantevoli della natura florida e generosa ma anche quelle cupe e dure dei lavori nei campi, dei latifondisti sfruttatori, dei nobili prepotenti e di quei silenzi che diventano omertà e che soltanto uno scossone forte, una strantuliata potrebbe trasformare in parole, in testimonianze e quindi in verità. Il doppio risultato che uno scossone inaspettato può provocare, l’autore lo racconta nel suo giallo con protagonista l’autista della corriera che quotidianamente percorre la tratta da Licu a Sperlinga. Ischeri si sofferma sulla ripetitività dei gesti e delle incombenze, sui volti conosciuti e familiari che l’autista incrocia ogni giorno.
Può la scoperta di un cadavere rinvenuto lungo la strada cambiare l’andamento di quella quotidianità e dare voce ai silenzi dolorosi e imposti? Abbandonato al centro della strada avvolto in uno scapolare c’è il cadavere di Don Tano. L’autista lo riconosce e percepisce una presenza nei dintorni. Da quel momento comincia per lui un nuovo percorso di solitudine, senza Berta, così chiama la sua corriera, ma con un intero paese che lo giudica e sta zitto. Il protagonista, spinto dal forte senso di giustizia che la sua divisa da servitore dello stato gli infonde non si piega alle regole dell’omertà.
La strantuliata sarà forte e gli effetti distruttivi perché sarà a catena e coinvolgerà ogni personaggio, in una coralità narrativa sapientemente gestita dall’autore. Ogni personaggio svelerà il suo lato oscuro, il suo segreto che rientra in un quadro criminale accettato da tutti.
Fabrizio, mi racconti quando hai deciso di scrivere e cosa ti ha spinto a dedicarti al genere giallo?
Negli anni ho sempre scritto, utilizzando la scrittura come una sorta di medicina contro l’eccessivo stress derivante dalla mia attività professionale e dagli impegni istituzionali. Non avevo, però, mai pensato di pubblicare quanto scrivevo, limitando ad una stretta cerchia di amici la diffusione dei miei racconti. Durante il lockdown, per contrastare la noia della inattività forzata, ho cominciato a pubblicare su Facebook delle brevi storie che ho intitolato Le Storie della quarantena, riscontrando con mia sorpresa l’apprezzamento da parte dei miei contatti e non solo. In estate, durante le brevi vacanze che abitualmente trascorro nelle Madonie, mi sono cimentato in una storia più lunga e ho scritto La strantuliata. Anche in questo caso, senza alcuna ambizione di pubblicare il romanzo. Come in passato, pensavo di conservare il file con il racconto nell’hard disk del mio computer. Casualmente, però, mi sono imbattuto in un post di Raffaella Catalano e Giacomo Cacciatore in cui comunicavano che avrebbero curato una nuova collana di romanzi gialli per l’editore Ianieri. Ho inviato la sinossi del mio libro ed è piaciuto. Da lì la pubblicazione. Ho scelto il genere giallo perché ho sempre amato il genere, in particolare i “gialli di indagine” costruiti attorno ad un delitto di cui il lettore è chiamato a ricostruire colpevoli, moventi, e a risolvere gli enigmi.
Il romanzo è siciliano di ambientazione, racconti la Sicilia dei latifondi degli anni Trenta, com’ è stato il tuo metodo di ricerca storica e del linguaggio?
Quella descritta nel romanzo è una parte specifica della Sicilia, ossia quella rurale interna, la cd. Sicilia del grano, in cui il latifondo è stato presente fino a pochi anni fa. La strantuliata è ambientata, in particolare, al confine tra le Madonie (dove è allocata Licu) e i Nebrodi (a cui appartiene Sperlinga). E’ la zona del dialetto gallo italico, quella da cui proveniva il personaggio del Gran Lombardo di Conversazione in Sicilia di Vittorini. Una zona molto particolare, rispetto ad altre aree dell’isola. La frequento sin da bambino, perché i miei nonni materni erano originari di Gangi, un paese al confine tra le Madonie e i Nebrodi. Mia nonna, la Gna Mauruzza a cui è dedicato il libro, immancabilmente si trasferiva lì dalla città ad inizio estate e vi rimaneva fino alle piogge autunnali. Io, da piccolo, dopo le vacanze estive al mare, venivo consegnato dai miei genitori alla nonna e restavo in sua compagnia fino all’inizio della scuola, che era ad ottobre. In quel periodo ascoltavo le storie, raccontate con quel dialetto dolce tipico della zona, dagli anziani che avevano vissuto l’epopea dei briganti e del Prefetto Mori (Il prefetto di Ferro) mandato da Mussolini a debellare la piaga del brigantaggio. Sono racconti, rimasti in qualche recondito spazio della memoria, che sono riemersi la scorsa estate, scrivendo la strantuliata.
I capitoli sono brevi e incisivi e terminano con un detto un proverbio in dialetto che rappresenta la summa dei concetti e degli avvenimenti che racconti. Quanto queste espressioni tipiche di un linguaggio orale che ancora persiste ti hanno ispirato?
Negli anni ho annotato varie espressioni dialettali. In particolare mi hanno sempre incuriositi i detti popolari ed i proverbi, che contengono pillole di saggezza che la tradizione orale ha tramandato nel tempo. Ho voluto utilizzarli come chiave di comprensione del capitolo e di collegamento con il capitolo successivo. Credo che sia una delle scelte più apprezzate dai lettori, per quello che sto riscontrando.
All’epoca era molto forte il senso di responsabilità che anche la divisa da autista della corriera imponeva. Blando è un uomo solo, che rapporto ha Blando con la corriera che chiama Berta?
Blasco Blando è un uomo solo, vive in un periodo ed in una zona in cui la prepotenza dei potenti (baroni, campieri ma anche uomini di Stato) la fa da padrone. Non ha più una famiglia che lo protegga, non si fida delle istituzioni che appaiono lontane dalla sua realtà. Ha creduto, in realtà, in quelle istituzioni andando a testimoniare sull’omicidio, ma ha dovuto rendersi conto che quelle istituzioni, idealmente impersonate dall’immagine del Re che sovrasta la scrivania del maresciallo, in realtà si manifestano attraverso persone (il tenente, il giudice, lo stesso maresciallo) non sempre all’altezza delle sue aspettative di giustizia. Ha sviluppato un rapporto quasi affettivo con quella sua compagna di viaggio, un mezzo meccanico a cui ha dato anche un nome per personalizzarla. E’ lei la testimone muta di tutta la vicenda, al contempo palcoscenico e protagonista del racconto.
Scritto in prima persona il giallo è una confessione, ma anche un urlo contro l’omertà in tutte le sue espressioni?
Ho scelto di scrivere il romanzo in prima persona, rivelando il nome del narratore solo a fine storia, perché l’ho immaginato come un racconto fatto tanti anni dopo, come quello di Marco Polo a Rustichello da Pisa. Non sveliamo di più per non svelare il finale ai lettori, ma è evidente che il narratore è un uomo disilluso, che ha creduto nella giustizia venendo travolto dal potere e dalla prepotenza, un uomo che si pente di non avere seguito il consiglio dei suoi avi, che gli suggerivano di “farsi i fatti propri”. Blasco mi ricorda l’autista della Volvo ferma alla stazione di Monterosso di “Una storia semplice” di Sciascia che finisce con il pentirsi di aver testimoniato o, se vogliamo, ancor di più Piero Nava, il rappresentante di commercio testimone dell’omicidio Livatino, la cui vita è stata stravolta dall’aver testimoniato quanto aveva visto.
Il maresciallo Li Pira, il tenente Leone Asvisio, il pretore Caputo, quanto o in cosa sono diversi questi uomini di legge?
Sono tre rappresentanti dello Stato che impersonano tre differenti atteggiamenti, ciascuno negativo a modo suo. Li Pira è il classico maresciallo dei carabinieri di paese che conosce bene la realtà in cui opera, si concentra sui reati minori senza smuovere “il gioco grande”. E’ un onesto servitore dello Stato ma non vuole rogne, cerca di fare il suo senza smania di grandezza. Il Tenente Leone Asvisio è l’inquirente ambizioso, quello che cerca visibilità per fare carriera. Sempre ossequioso con i potenti e rigido con i deboli, coglie subito l’opportunità dell’indagine per mettersi in evidenza, cercando clamore al fine di porre sé stesso al centro della scena, annebbiato dalla sua stessa ambizione. Il Pretore Caputo è un magistrato a fine carriera, ha già dato il meglio di sé ottenendone in cambio la punizione del confino alla remota pretura di Nicosia. E’ un uomo di cultura, amante dei classici, ma ha ormai dimenticato quel “fuoco interiore” che probabilmente lo ha spinto a scegliere la carriera di giudice. Non cerca la verità ma la “verità meno scomoda” pur di non avere ulteriori problemi.
La luna piena, i campi di grano, la natura e i paesaggi sono partecipi della storia?
Qualcuno mi ha detto che il vero protagonista del romanzo è il paesaggio, fatto da campi di grano con contadini curvi che non alzano lo sguardo. Credo che sia abbastanza vero. I primi capitoli del romanzo sono volutamente scritti come un lungo e lento piano sequenza sul paesaggio, in cui i protagonisti si muovono mentre tutto attorno a loro è immobile. Una immobilità che è sintomatica di uno stato di cose, come si vedrà alla fine.