“SE VUOI VIVERE FELICE” DOVE SI MESCOLA AUTOBIOGRAFIA, CRONACA E UN PO ‘ DI MISTERY
L’AUTORE, FORTUNATO CERLINO, INDIMENTICABILE NEL RUOLO DEL BOSS SAVASTANO IN GOMORRA, INTERVISTATO DA CRISTINA MARRA.
di Cristina Marra
14/01/2019
Letteratura
REGGIO CALABRIA. Fortunato sogna, si nutre di desideri e riempie le giornate giocando con la fantasia. Ha dieci anni ma già conosce tante cose eppure è indeciso su cosa fare da grande, l'astronauta o anche il cantante o forse sarebbe meglio l'attore e vivere interpretando diverse identità. Fortunato vive a Pianura e sa cos'è la fame, comprende il sacrificio e riconosce il male. Cresce negli anni Ottanta vicino Napoli eppure lontanissimo dalla vivacità della città partenopea che è a un tiro di schioppo eppure sembra un'oasi nel deserto.
Fortunato è il protagonista di "Se vuoi vivere felice" di Fortunato Cerlino, un libro particolare, difficile da inserire in un genere letterario perché mescola autobiografia, diario, cronaca a un tocco di mystery, è il racconto di una vita o meglio di una parte di vita, il periodo formativo vissuto da un bambino che guarda al mondo con ingenuità ma determinazione. Fortunato vuole conoscere, vuole studiare, vuole scrivere e vuole anche mangiare, è un bambino che si accontenta di poco ma ha grandi sogni e sa che può anche farcela a realizzarli. L'Italia degli inizi degli anni Ottanta in cui si svolge il racconto, ha la stessa forza e vivacità di Fortunato e cresce socialmente e culturalmente con lui. Il libro racchiude ricordi, aneddoti e pezzi di vita annotati su un quadernino di cartapaglia e il profumo di quelle storie di quei momenti trascorsi nelle due stanze di casa, nel cortile o pensando al treno da prendere per acchiappare il suo grande sogno prima che scappi via.
"Se vuoi vivere felice" è un libro tenero nella sua durezza di racconto sociale e introspettivo che fa commuovere e strappa piu' di un sorriso. Cerlino intesse una trama seminando indizi che portano a un unico colpevole: il sogno. Un colpevole che non arreca danno anzi incita Fortunato a non mollare neanche di fronte alle enormi difficoltà. Cerlino al suo esordio letterario si rivela un grande narratore e calibra alla perfezione tutti gli ingredienti semplici eppure efficaci della buona scrittura come quelli che servono per il pane che lievita bene e che incanta il piccolo Fortunato mentre guarda la nonna impastarlo.
Da attore a narratore, quando si è acceso il desiderio di raccontare la storia di Fortunato?
Ognuno di noi, inevitabilmente, è accompagnato dalla sua storia personale. La trama della propria vita ha un significato che spesso valica l'aspetto prettamente psicologico. Tutte le vite, quando se ne coglie almeno qualche frammento di senso, valgono la pena di essere raccontate, ma bisogna capire il momento per farlo. Nella ascesa dell'esistenza ogni tanto si raggiungono punti da cui si può ammirare il panorama e rendersi conto della distanza percorsa. Uno sguardo d'insieme su parte delle vicende vissute. In quel momento la coscienza può farti dono di lampi di consapevolezza. Si manifestano così, nel proprio percorso, linee di narrazione verticali che non appartengono solo a te, e che potrebbe essere utile raccontare agli altri. In “Se vuoi vivere felice” mi sforzo di non riportare solo accadimenti estemporanei, ma di contenerli in una intenzione narrativa che vuole contestualizzarli per rintracciare significati utili per chi legge. La storia si svolge in epoca cruciale, non solo per Fortunato bambino. I primi anni ottanta sono la culla della trasformazione del protagonista del romanzo, ma anche di un intero paese, e forse non solo. L'Italia in quel periodo ha vissuto una metamorfosi radicale. In quegli anni sono stati gettati i semi di quello che siamo adesso. Il senso della storia collettiva mutava, e il popolo si frammentava in individui consumatori chiusi in sé stessi. Il suo ruolo sociale sarebbe cambiato irrimediabilmente.
Il titolo è la strofa di una canzone popolare e celebre e nel romanzo c'è tanta musicalità nella narrazione, mi piace pensare che hai riportato su carta un racconto orale, sei d'accordo con la mia interpretazione?
“Reginella campagnola” è in realtà una canzone popolare abruzzese. La imparammo dalla maestra Giulia alla scuola elementare. “ Se canti la tua voce, è un'armonia di pace, che si diffonde e dice: "se vuoi vivere felice devi vivere quassù!"...” Mi piaceva fantasticare su quel lassù dove era possibile vivere felici. Con il tempo ho dato un corpo a quel luogo immaginario, partendo dai desideri che agitavano l'anima di Fortunato bambino nella casa bruciata menzionata nel romanzo. Ho imparato a credere nei sogni, a patto però di farli diventare realtà attraverso il progetto ed il lavoro. Come quando nasce un bambino. All'inizio è solo una fantasia, un sogno, poi arriva, ed è una vita reale, concreta. Lassù esiste una casa che aspetta solo di essere abitata, una casa che si spinge fino al cielo, e che, piano dopo piano, conduce alla felicità.
L'armonia di pace è il sentiero da seguire. La musica, forse più di tutte le altre forme d'arte, è universale. Il mio romanzo è puntellato dalle note sulle quali ho volato in quel periodo della mia vita. Chiaramente, crescendo, ho scoperto molti altri paesaggi musicali.
Fortunato sogna molto e scrive sul quadernino di cartapaglia. Quanto di quel bambino sognatore c'è ancora in te?
Non interrompere il rapporto con il mio bambino interiore, con la sua esperienza del mondo, è un istinto che ho sempre avuto. Il bambino ha una relazione diretta con il mondo e i suoi significati, una sorta di zona vergine che non ha nulla a che fare con l'essere infantili. I bambini sono molto seri, soprattutto quando giocano. L'essere infantili è una caratteristica degli adulti. Non sto discutendo il necessario processo di adesione ai codici cognitivi del mondo degli adulti, saremmo dei dissociati se lo facessimo, dico solo che bisogna pensare alla nostra esperienza di bambini con altrettanta serietà. Spesso i “grandi”, confondono la superstizione con la cultura e la paura con il senso mistico del reale. Il bambino ha una fede innata nella verità.
Il romanzo inizia con una morte, un uomo senza vita sull'asfalto quasi fosse un giallo, quella morte in effetti apre una sorta di indagine introspettiva, è da quella morte che Fortunato comprende qual è la sua strada?
Comprende che è la disperazione che genera la violenza. La società umana si ispira da troppo tempo a filosofie di prevaricazione, di sopraffazione. Possedere ci fa sentire forti e al sicuro. Chi non ha, non è, e allora si vive nella paura, nella disperazione. Spesso a ragione, perché nei modelli di società che manifestiamo, chi non ha, è lasciato soccombere. L'uomo terrorizza il suo simile perché è spaventato. Amo molto il concetto di timore descritto nella bibbia. Il timore non è terrore. Si è intimoriti quando ci si trova di fronte alla bellezza, quando ci si innamora, quando si è felici. La natura, Dio, ci intimorisce ma non ci terrorizza. Fortunato bambino non ha mai smesso di ricordare che viviamo su una palla sospesa nel nulla, che all'uomo la natura consiglia umiltà. Lo stato di ignoranza della condizione umana potrebbe essere uno stato di grazia, forse necessario per accedere a verità superiori, e invece reagiamo con orgoglio e aggressività. Viviamo come se conoscessimo tutto e tutto potessimo possedere. Questa è la genesi della violenza, l'ignoranza associata alla paura e quindi all'arroganza. Questa è la morte.
Tanti profumi e sapore di cibi semplici ma intensi, e c'è un altro quaderno che fa parte dell'infanzia di Fortunato, quello delle ricette...
Molta cultura passa dai piatti. L'amore si può cucinare. Talvolta, un po' per abitudine, un po' per la cultura patriarcale alla base del nostro vissuto, non riusciamo ad esprimere gli affetti in maniera diretta, e allora ci affidiamo ai fornelli. In questo c'è un significato profondo. I sapori, gli odori, sono veicoli di senso e significato, e spesso sono molto più efficienti delle parole quando si tratta di trasportare emozioni. Mi capita di capire il carattere di una persona dal profumo che c'è nella sua cucina. Nel romanzo ho affidato ai sapori e alle ricette molte cose che non sapevo scrivere altrimenti, o che comunque sarebbero risultate concettuali.
Un rudere, una casa mezza diroccata, è lì che il bambino custodisce e coltiva i suoi sogni?
Tutti I castelli sono così. Abbandonati. Perché non crediamo più ai re, alle fate, ai draghi, ai cavalieri, alle principesse. Invece esistono. Tutto il resto lasciamolo ai telegiornali.
Racconti la realtà di Pianura da dove proviene il padre detto 'O Cafone e racconti le differenze territoriali che cambiano man mano che ci si avvicina a Napoli che è quasi un miraggio per molti, com'è raccontare la tua terra e seconde te è facile raccontare una città poliedrica e in continua evoluzione com'è Napoli?
Napoli è impossibile da contenere in una sola narrazione. È una città universale, patrimonio dell'umanità, perché contiene in se molti opposti. Vita e morte camminano per i vicoli a braccetto. Il sole a momenti ti acceca, un istante dopo ti abbandona al buio. Il mare ti avvolge e ti minaccia. Il Vesuvio dorme, e anche se è rassicurante vederlo dormire, nessuno sa bene che sogni stia facendo. Una città verticale dove si può solo salire o scendere. Su c'è il paradiso, in basso, l'inferno. È una fortuna essere nati a Napoli, poche altre città al mondo sono così vitali anche se estreme.
Vedresti la tua storia in una trasposizione cinematografica?
All'inizio lo escludevo. Ora ci sto pensando.
Fortunato è il protagonista di "Se vuoi vivere felice" di Fortunato Cerlino, un libro particolare, difficile da inserire in un genere letterario perché mescola autobiografia, diario, cronaca a un tocco di mystery, è il racconto di una vita o meglio di una parte di vita, il periodo formativo vissuto da un bambino che guarda al mondo con ingenuità ma determinazione. Fortunato vuole conoscere, vuole studiare, vuole scrivere e vuole anche mangiare, è un bambino che si accontenta di poco ma ha grandi sogni e sa che può anche farcela a realizzarli. L'Italia degli inizi degli anni Ottanta in cui si svolge il racconto, ha la stessa forza e vivacità di Fortunato e cresce socialmente e culturalmente con lui. Il libro racchiude ricordi, aneddoti e pezzi di vita annotati su un quadernino di cartapaglia e il profumo di quelle storie di quei momenti trascorsi nelle due stanze di casa, nel cortile o pensando al treno da prendere per acchiappare il suo grande sogno prima che scappi via.
"Se vuoi vivere felice" è un libro tenero nella sua durezza di racconto sociale e introspettivo che fa commuovere e strappa piu' di un sorriso. Cerlino intesse una trama seminando indizi che portano a un unico colpevole: il sogno. Un colpevole che non arreca danno anzi incita Fortunato a non mollare neanche di fronte alle enormi difficoltà. Cerlino al suo esordio letterario si rivela un grande narratore e calibra alla perfezione tutti gli ingredienti semplici eppure efficaci della buona scrittura come quelli che servono per il pane che lievita bene e che incanta il piccolo Fortunato mentre guarda la nonna impastarlo.
Da attore a narratore, quando si è acceso il desiderio di raccontare la storia di Fortunato?
Ognuno di noi, inevitabilmente, è accompagnato dalla sua storia personale. La trama della propria vita ha un significato che spesso valica l'aspetto prettamente psicologico. Tutte le vite, quando se ne coglie almeno qualche frammento di senso, valgono la pena di essere raccontate, ma bisogna capire il momento per farlo. Nella ascesa dell'esistenza ogni tanto si raggiungono punti da cui si può ammirare il panorama e rendersi conto della distanza percorsa. Uno sguardo d'insieme su parte delle vicende vissute. In quel momento la coscienza può farti dono di lampi di consapevolezza. Si manifestano così, nel proprio percorso, linee di narrazione verticali che non appartengono solo a te, e che potrebbe essere utile raccontare agli altri. In “Se vuoi vivere felice” mi sforzo di non riportare solo accadimenti estemporanei, ma di contenerli in una intenzione narrativa che vuole contestualizzarli per rintracciare significati utili per chi legge. La storia si svolge in epoca cruciale, non solo per Fortunato bambino. I primi anni ottanta sono la culla della trasformazione del protagonista del romanzo, ma anche di un intero paese, e forse non solo. L'Italia in quel periodo ha vissuto una metamorfosi radicale. In quegli anni sono stati gettati i semi di quello che siamo adesso. Il senso della storia collettiva mutava, e il popolo si frammentava in individui consumatori chiusi in sé stessi. Il suo ruolo sociale sarebbe cambiato irrimediabilmente.
Il titolo è la strofa di una canzone popolare e celebre e nel romanzo c'è tanta musicalità nella narrazione, mi piace pensare che hai riportato su carta un racconto orale, sei d'accordo con la mia interpretazione?
“Reginella campagnola” è in realtà una canzone popolare abruzzese. La imparammo dalla maestra Giulia alla scuola elementare. “ Se canti la tua voce, è un'armonia di pace, che si diffonde e dice: "se vuoi vivere felice devi vivere quassù!"...” Mi piaceva fantasticare su quel lassù dove era possibile vivere felici. Con il tempo ho dato un corpo a quel luogo immaginario, partendo dai desideri che agitavano l'anima di Fortunato bambino nella casa bruciata menzionata nel romanzo. Ho imparato a credere nei sogni, a patto però di farli diventare realtà attraverso il progetto ed il lavoro. Come quando nasce un bambino. All'inizio è solo una fantasia, un sogno, poi arriva, ed è una vita reale, concreta. Lassù esiste una casa che aspetta solo di essere abitata, una casa che si spinge fino al cielo, e che, piano dopo piano, conduce alla felicità.
L'armonia di pace è il sentiero da seguire. La musica, forse più di tutte le altre forme d'arte, è universale. Il mio romanzo è puntellato dalle note sulle quali ho volato in quel periodo della mia vita. Chiaramente, crescendo, ho scoperto molti altri paesaggi musicali.
Fortunato sogna molto e scrive sul quadernino di cartapaglia. Quanto di quel bambino sognatore c'è ancora in te?
Non interrompere il rapporto con il mio bambino interiore, con la sua esperienza del mondo, è un istinto che ho sempre avuto. Il bambino ha una relazione diretta con il mondo e i suoi significati, una sorta di zona vergine che non ha nulla a che fare con l'essere infantili. I bambini sono molto seri, soprattutto quando giocano. L'essere infantili è una caratteristica degli adulti. Non sto discutendo il necessario processo di adesione ai codici cognitivi del mondo degli adulti, saremmo dei dissociati se lo facessimo, dico solo che bisogna pensare alla nostra esperienza di bambini con altrettanta serietà. Spesso i “grandi”, confondono la superstizione con la cultura e la paura con il senso mistico del reale. Il bambino ha una fede innata nella verità.
Il romanzo inizia con una morte, un uomo senza vita sull'asfalto quasi fosse un giallo, quella morte in effetti apre una sorta di indagine introspettiva, è da quella morte che Fortunato comprende qual è la sua strada?
Comprende che è la disperazione che genera la violenza. La società umana si ispira da troppo tempo a filosofie di prevaricazione, di sopraffazione. Possedere ci fa sentire forti e al sicuro. Chi non ha, non è, e allora si vive nella paura, nella disperazione. Spesso a ragione, perché nei modelli di società che manifestiamo, chi non ha, è lasciato soccombere. L'uomo terrorizza il suo simile perché è spaventato. Amo molto il concetto di timore descritto nella bibbia. Il timore non è terrore. Si è intimoriti quando ci si trova di fronte alla bellezza, quando ci si innamora, quando si è felici. La natura, Dio, ci intimorisce ma non ci terrorizza. Fortunato bambino non ha mai smesso di ricordare che viviamo su una palla sospesa nel nulla, che all'uomo la natura consiglia umiltà. Lo stato di ignoranza della condizione umana potrebbe essere uno stato di grazia, forse necessario per accedere a verità superiori, e invece reagiamo con orgoglio e aggressività. Viviamo come se conoscessimo tutto e tutto potessimo possedere. Questa è la genesi della violenza, l'ignoranza associata alla paura e quindi all'arroganza. Questa è la morte.
Tanti profumi e sapore di cibi semplici ma intensi, e c'è un altro quaderno che fa parte dell'infanzia di Fortunato, quello delle ricette...
Molta cultura passa dai piatti. L'amore si può cucinare. Talvolta, un po' per abitudine, un po' per la cultura patriarcale alla base del nostro vissuto, non riusciamo ad esprimere gli affetti in maniera diretta, e allora ci affidiamo ai fornelli. In questo c'è un significato profondo. I sapori, gli odori, sono veicoli di senso e significato, e spesso sono molto più efficienti delle parole quando si tratta di trasportare emozioni. Mi capita di capire il carattere di una persona dal profumo che c'è nella sua cucina. Nel romanzo ho affidato ai sapori e alle ricette molte cose che non sapevo scrivere altrimenti, o che comunque sarebbero risultate concettuali.
Un rudere, una casa mezza diroccata, è lì che il bambino custodisce e coltiva i suoi sogni?
Tutti I castelli sono così. Abbandonati. Perché non crediamo più ai re, alle fate, ai draghi, ai cavalieri, alle principesse. Invece esistono. Tutto il resto lasciamolo ai telegiornali.
Racconti la realtà di Pianura da dove proviene il padre detto 'O Cafone e racconti le differenze territoriali che cambiano man mano che ci si avvicina a Napoli che è quasi un miraggio per molti, com'è raccontare la tua terra e seconde te è facile raccontare una città poliedrica e in continua evoluzione com'è Napoli?
Napoli è impossibile da contenere in una sola narrazione. È una città universale, patrimonio dell'umanità, perché contiene in se molti opposti. Vita e morte camminano per i vicoli a braccetto. Il sole a momenti ti acceca, un istante dopo ti abbandona al buio. Il mare ti avvolge e ti minaccia. Il Vesuvio dorme, e anche se è rassicurante vederlo dormire, nessuno sa bene che sogni stia facendo. Una città verticale dove si può solo salire o scendere. Su c'è il paradiso, in basso, l'inferno. È una fortuna essere nati a Napoli, poche altre città al mondo sono così vitali anche se estreme.
Vedresti la tua storia in una trasposizione cinematografica?
All'inizio lo escludevo. Ora ci sto pensando.