“LA ROSA NON CI AMA”: INCONTRO CON IL DRAMMATURGO ROBERTO RUSSO

ESPLORAZIONE NELL’ABISSO DELL’ANIMO UMANO ALLA RICERCA DEL SUBLIME.

di Alma Daddario 03/05/2019
Intervista
roberto russo la rosaRoma. Roberto Russo è uno degli autori più originali nel panorama della drammaturgia italiana contemporanea. Significativi e attenti a un messaggio che li universalizza, i temi trattati nelle sue opere, sono narrati in una prosa che utilizza un linguaggio ricco di richiami classici, ma al contempo contemporanei. Come un abile strumentista l’autore utilizza abilmente l’italiano, ma anche il napoletano antico, e a volte persino il latino evidenziando tutta la creatività e la ricchezza cui può attingere la nostra lingua madre.

Ed è proprio nel teatro che questa lingua prende copro e voce. Incontriamo l’autore durante le prove della sua ultima fatica: “La rosa non ci ama” che andrà in scena al teatro Belli di Roma dal 10 maggio.
 
D - Come ti e' venuta l'idea per questo spettacolo?
R - La dicotomia fra stelle ed abisso, fra grandezza e aberrazione, ha esercitato sempre un grande fascino su di me e sulla mia ispirazione. Tu pensa a quanto la vicenda di Carlo Gesualdo e Maria D’Avalos incarni questo equilibrio (squilibrio): abbiamo un genio assoluto del Bello, un genio che sperimenta per primo il cromatismo musicale nei suoi madrigali e mottetti. Ebbene, questo grandissimo, vittima anche lui delle convenzioni, concepisce un duplice omicidio premeditato tramite sicari e poi, con quelle stesse mani che tracciavano nuove armonie, si accanisce e vilipende due cadaveri. È il ponte sull’abisso di cui ti parlavo

D - Ci sono stati nei secoli varie interpretazioni di questa triste vicenda. C'è chi dice che il principe consorte sia stato preda di un raptus di gelosia e che abbia anche ucciso il figlio ravvisando in lui la somiglianza con l'amante della moglie, per altri invece Gesualdo fu condizionato dall'opinione pubblica, e non avrebbe voluto vendicarsi. Da che parte sta lo scrittore Russo?
R - Certamente dalla parte della seconda ipotesi. L’omicidio di Carlo non ha nulla di passionale né è un delitto che nasce per gelosia. È un delitto richiesto ed annunciato dalla pubblica opinione, dalla Gente. Vedi noi dobbiamo scindere la leggenda ed il pettegolezzo, creati da quello stesso contesto sociale e politico che armo’ la mano di Gesualdo, dalla verità storica e giudiziaria. Del fatto esistono documenti ed atti giudiziari che si ti ritrovano nell’Archivio Storico. In fondo stiamo parlando appena di 400 anni fa e, all’epoca, esistevano leggi, magistrati e cancellieri. roberto russo la rosa non ci ama

Cominciamo col dire che è falso che Carlo abbia ucciso il figlio. Non è vero. Il figlio avuto da Maria, crebbe, recuperò nel tempo un buon rapporto con il padre, si sposò ed ebbe due figlie. Ti rendi conto quanto le voci della gente abbiano assassinato più volte le TRE vittime di quella tragedia? ( tre, perché fu vittima anche Carlo). Carlo era stato costretto da ragioni familiari a sposare la bellissima Cugina Maria, di sei anni più Grande e che era già vedova di due mariti. La necessità di sposarsi fu dovuta alla morte prematura del fratello maggiore di Carlo. Quella dei Gesualdo, tanto per intenderci, non era una normale famiglia di aristocratici ma svolgevano una funzione pubblica importantissima per gli stessi spagnoli: erano gli Agenti della Riscossione del viceré. Una “Equitalia” ante litteram. Potere e ricchezze immense alle quali assicurare una continuità. È certo che il proscioglimento in istruttoria di Carlo, fatto aberrante anche per il diritto penale dell’epoca, avvenne proprio per questo ruolo egemonico della famiglia Gesualdo.

Quindi Carlo, benché gli interrogatori dei servi da parte dei magistrati, il giorno dopo il delitto, evidenziassero chiaramente la natura premeditata degli omicidi, non subì mai un processo. Non sappiamo se Carlo fosse innamorato di Maria. Forse era preso soprattutto dalla musica e dalla caccia. È presumibile che Carlo sapesse della tresca con Carafa ma non sapeva che gli incontri avvenissero nottetempo sotto il suo stesso tetto mentre lui si trovava nell’altra ala del palazzo. A quanto pare fu la confessione di una serva ad un gesuita, e gli stessi maneggi dei gesuiti che avevano mire sul patrimonio dei Gesualdo, a svelargli questo aspetto. Si racconta che fu suo zio Giulio a chiedergli una presa di posizione netta e definitiva di fronte allo scandalo che montava. Si, è possibile che Carlo abbia fatto giungere a Carafa un avvertimento minacciando di ucciderlo qualora si fosse recato ancora a casa sua. Attenzione: gli chiede di non recarsi più a casa sua, non di interrompere il rapporto con Maria quindi escludo sia la natura istintiva quanto quella passionale dei delitti.

D - Come spiegare comunque tanta efferatezza: l'esposizione del cadavere al vilipendio pubblico ?
R - Il cadavere di Maria non venne mai esposto, come si racconta, sullo scalone del palazzo. Questa è un’altra leggenda. La prova l’abbiamo leggendo il processo verbale di accesso redatto dal cancelliere del tribunale Gian Domenico Micene. Il cancelliere che accompagnò i magistrati la mattina del 17 ottobre del 1590, descrive precisamente il luogo del delitto, la posizione dei corpi e le ferite inferte. I corpi erano lì, nella stanza. Quello di Maria era nel letto. Dopo l’accesso giudiziario entrambi i corpi vennero consegnati alle rispettive famiglie. Non ci fu nessuna esposizione. Come è un’altra leggenda del tutto infondata quella che vorrebbe il cadavere di Maria stuprato sullo scalone da un frate impazzito. La Gente, in ogni epoca, ama il macabro.

D - Nello spettacolo agiscono due personaggi specuĺari proiettati in un'epoca moderna, c' un modo di attualizzare la storia ?
R - Assolutamente sì. Pensa che l’azione l’ho immaginata partire ai giorni nostri: nella notte della Napoli di oggi, in quella stessa piazza, si incontrano le ombre di Carlo e di Maria. Si riconoscono, e si sfidano. Lo scopo è dare un senso vero alla tragedia vissuta. La vicenda è attuale e lo è per ogni periodo perché l’agire dei tre è condizionato e voluto dalle aspettative della società che li circonda. La gente vuole che Carlo, per non cadere nel ridicolo, agisca e si vendichi.

Le azioni di ognuno dei tre deve rientrare nello status che la gente stessa riconosce loro. Se Carlo deve vendicarsi, Maria, la Principessa, non può essere trattata come una qualsiasi sciacquetta che il Carafa possa sedurre e poi abbandonare. E Carafa, a sua volta, che pure era stato avvertito, e che aveva palesato a Maria la necessità di interrompere gli incontri, di fronte alla reazione sdegnata della donna, non può fare la figura del vigliacco. Ognuno dei tre è vittima di ruoli che altri hanno scritto per loro e nessuno dei tre ha la forza per ribellarsi spezzando queste catene forgiate dalle convenzioni.

D - L'attenzione al linguaggio, alla simbolicita e sonorità che lo rende universale e una caratteristica della tua opera teatrale, quanto ti ha condizionato in questo Il fatto di provenire da una tradizione culturale partenopea?
R - Mi ha condizionato perché Napoli è Il crocevia di molte sonorità, linguaggi, culture. Napoli è una ricchezza ed una condanna. Napoli è un marchio.

D - E in questo caso, perché la scelta di far parlare i personaggi sia in italiano che in napoletano antico, con citazioni latine?
R - Perché il mio scopo è stato quello di dare voce alla folla. Da quella dei nobili arroganti, magniloquenti, “inspagnoliti”, al Lazzaro che viveva per strada, al cialtrone che cercava di ritagliarsi un po’ di benessere servendo il potente. Sono personaggi quotidiani, spesso colti nel loro aspetto grottesco. È un affresco barocco nel quale non poteva mancare l’idioma del potere, il latino dei giudici e dei prelati. È come un infernale presepe seicentesco. Tante voci, tante urla, tante smorfie danno vita ad un dramma elisabettiano ma, in realtà, molto moderno.

D - Per questo spettacolo ci si aspetterebbe un titolo tipo: Amore e morte, o qualcosa del genere. Perché la scelta de "La rosa non ci ama"?
R - Perché a mio parere a dominare non è l’Amore. Ho seri dubbi che ci fosse amore fra Carlo e Maria ma ho gli stessi dubbi che ci fosse amore vero fra Maria e Carafa. Fra loro due c’era certamente passione carnale ma il vero amore ti porta a difendere la persona che ami. Qui non succede perché domina in tutti ciò che la Gente può dire e pensare di loro Quindi, da questo, ho elaborato il concetto di “Rosa”. Un fiore bellissimo, con le spine.

Un fiore creato per essere ammirato ed amato ma che, a volerlo toccare, ti respinge e ti punge. La Rosa in questa accezione è ciò che la Gente pensa di te ed è quello che la Gente ti tributa: successo, ammirazione, status. Tutte convenzioni che ci cuciono addosso una seconda pelle. E noi dobbiamo essere degni di quello che la gente pensa di noi. In questo c’è il dramma dei tre personaggi. Ognuno agisce per essere degno di quella considerazione. Ognuno agisce per amare La Rosa. Ma la tragedia è che La Rosa, da parte sua, non ci ama ma soltanto se stessa ama e chiede ad ognuno il sacrificio di rinunciare ad una parte di noi.

D - Non è la prima volta che affidi l'interpretazione di un tuo personaggio all'attore e regista Gianni de Feo: e nato un sodalizio artistico?
R - Si, è nato perché con Gianni c’è una confluenza espressiva, già sperimentata in “Chapeau”, molto libera e “scapigliata” nel senso che segue solo le linee di una teatralità giocosa e fortemente surreale. D’altronde io credo di avere poco della metodicità che spesso caratterizza uno scrittore. Pur avendo una mia tecnica, nel momento dionisiaco del dialogo, avverto più il furore del pittore o del musicista che non quello dello scrittore. E Gianni non è soltanto un attore, ma un artista. In fondo siamo due ragazzi, un po’ lazzaroni, che inventano mondi. 

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