INTERVISTA A MONICA ACITO AUTRICE DI UVASPINA

ROMANZO D’ESORDIO DELLA PROMETTENTE AUTRICE ORIGINARIA DELLA CAMPANIA, GIÀ VINCITRICE DEL CALVINO PER I RACCONTI

di Cristina Marra 22/02/2023
Le interviste di Cristina
monica acito uvaspinaReggio Calabria. Uvaspina è un tuffo, una immersione totale, come quella della copertina, in una storia corale che ha il profumo e il tanfo di luoghi-personaggio che sono espressione diretta, sottintesa o accennata di stati d’animo e caratteri che nascono dal ventre di Napoli.

Figli di una città chioccia che non perde di vista i pezzi di sé, ma anche alla ricerca di una loro identità, i personaggi del romanzo d’esordio di Monica Acito, ruotano attorno al protagonista, Uvaspina.monica acito uvaspina

Figlio di Pasquale Riccio e della Spaiata e fratello maggiore di Minuccia, il giovane detto Uvaspina per via di una voglia a forma di chicco d’uva ma pallida come una luna, sotto l’occhio sinistro, è testimone, vittima e carnefice di una storia familiare e non solo, che diventa ricerca d’amore e formazione all’amore e in cui la città con i suoi scorci misteriosi, i suoi panorami, la sua bellezza che stordisce è il riflesso di questo sentimento, la sua espressione sfaccettata. L’autrice, vincitrice del premio Calvino per la narrativa breve nel 2021, ci cimenta con un romanzo corposo e denso, in cui la scrittura è magmatica e sgorga senza preavviso e senza risparmiare nessuno e soprattutto senza tradire l’anima dei personaggi che si affidano a lei per poi lasciarsi andare ai lettori.
 
Hai scritto il romanzo a Napoli d’estate in “uno stato di grazia terribile e di crudeltà”, mi racconti la sua genesi, Uvaspina, Minuccia la Spaiata erano nella tua testa da tempo?

Ho iniziato a scrivere il romanzo a Torino verso la fine del 2020, ma il grosso della stesura l’ho fatta a Napoli nell’estate del 2021, ed è stata l’estate più strana, sofferta e radiosa della mia vita. Quando poi il Miur, durante la solita roulette russa delle convocazioni, mi ha affidato una cattedra a Torino nell’ottobre del 2021, sono risalita in Piemonte e ho continuato a scrivere mentre lavoravo. La parte più felice, febbrile e proficua del lavoro l’ho compiuta però durante l’estate forcellara. Uvaspina, Minuccia e la Spaiata ruminavano nella mia testa da un decennio buono: quando ho sentito che era il momento giusto, gli ho lasciato spazio e loro si sono manifestati da soli, portandomi a scrivere sotto la loro dettatura, una dettatura condotta quasi con cattiveria.
 
La città stessa gli diceva che era giunto il momento di raccontare, è la voce di Napoli che ascolti nelle sue mille storie e cogli nei suoi mille volti?

In realtà non ho mai deciso espressamente o deliberatamente di scrivere una storia ambientata a Napoli. Molti, anzi la maggior parte delle persone, credono che tutto ciò sia stato progettato, dal momento che comunque Napoli incarna un vero e proprio genere letterario. A volte credo di essere stata io a crearmi la città a immagine e somiglianza, o viceversa, o forse ci siamo create insieme, o magari sono io che me la voglio raccontare così. Più che la città, credo che siano state delle pulsioni mie a chiedermi di raccontare, delle pulsioni di cui ancora non conosco bene la fenomenologia, qualcosa di molto sotterraneo che voleva che io scrivessi di Uvaspina e di Minuccia, di una trottola di legno che passa la sua infanzia e adolescenza a brutalizzare il fratello frutto dell’uvaspina, fino a dissanguarlo e esaurirne tutto il succo.
 
Una storia familiare, un romanzo di formazione all’amore e anche un’indagine psicologia, con Uvaspina che narratrice ti scopri?

Ho dovuto allenare ed esercitare il fiato da narratrice. Uvaspina era la prima cosa davvero lunga che scrivevo: non avevo mai oltrepassato le cento pagine, qui invece ne ho raggiunte quattrocentoventidue. Ho dovuto miscelare fiato lungo e corto, concedere momenti di necessaria tregua al lettore, perché la mia è una scrittura molto piena e barocca, aprire squarci più piani e alternare momenti di pieno e vuoto, sempre restando in un’ottica di narrativa pura e cercando di non perdere mai la mia cifra. Ho dovuto gestire un romanzo corale, snodandomi attraverso una terza persona appoggiata che si siede su ogni personaggio: la scrittura di Uvaspina è stato un momento catartico, liberatorio e faticoso, in cui mi è sembrato di entrare davvero nella mia officina narrativa personale. Ora credo di conoscermi molto meglio come scrittrice.
 
Da Uvaspina, alla Spaiata, a Minuccia, a Antonio a Pasquale, tutti i personaggi hanno un doppio volto, nascondono la loro vera natura, si camuffano e temono di aprirsi liberamente. Di cosa hanno paura?

Uvaspina, la Spaiata, Minuccia, Antonio e Pasquale sono come maschere della smorfia. Hanno sempre un duplice se non triplice volto: sono crudeli e repressi per la troppa smania di vivere, campano affidandosi ai non detti, indossano maschere di sale perché hanno voglia di essere amati per i disastri e gli sfaceli umani che sono realmente. Di cosa hanno paura? In primis, hanno paura di loro stessi, perché sono personaggi che non si conoscono bene, che si affidano alla divinazione della vita e del caso, vivono in una terribile dimenticanza di loro stessi. Quando si trovano faccia a faccia con quello che scoprono di volere davvero, inizia in loro un patimento quasi religioso, liturgico.
 
monica acito uvaspinaI luoghi chiusi, la casa in via Chiaia, Palazzo D’Anna e poi Posillipo, Marechiaro e Procida, il Vesuvio e i personaggi maschili e femminili sembrano intrecciarsi, accavallarsi e soprattutto assomigliarsi. Quanto quei luoghi diventano personaggio e si riflettono sui personaggi impregnandoli del loro sapore e delle loro suggestioni?

Tutti i luoghi del romanzo, da Chiaia a Forcella a Palazzo Donn’Anna passando per Procida, sono cangianti e inaffidabili. Sono riflessi speculari e infedeli dei personaggi: cambiano in continuazione, in modo volatile e aereo, quasi schizofrenico. Palazzo Donn’Anna è il luogo dell’iniziazione sessuale ed emotiva, un luogo doppio da cui si può accedere via terra e via mare, un luogo in cui nascondersi e non farsi vedere, è un luogo dove abitarono regine che sfruttavano sessualmente i pescatori e poi li avvelenavano o li gettavano nel golfo rendendoli pasto per le pezzogne napoletane; è lì che Uvaspina scopre il groviglio della sessualità e quindi anche il suo corpo, finora landa inesplorata, ed è lì che immagina il corpo della sorella mentre tocca il corpo di Antonio e poi ritorna sulla sua stessa carne, ma sempre pensando alla sorella, ai suoi seni, alla sua pancia, alle sue cosce. Forcella è il luogo della miseria e della polvere, della sbruffonaggine popolare e del riscatto pieno di rabbia, da lì si parte per mangiarsi il mondo e per non guardare in faccia a nessuno, quel luogo cambia così come cambia il senso ancestrale della fame, che si fa sempre più forte e inizia a colare tra il cippo di Forcella e il vico delle Zite. Invece i luoghi più marittimi, come Procida o Marechiaro (che ho scelto per rappresentare il legame del protagonista con Salvatore Di Giacomo, la scrittura e l’età aurea della letteratura partenopea, basti pensare alla Finestrella di Marechiaro, quella sotto cui anche i pesci fanno l’amore) non sono mai luoghi ossigenati e aperti verso la salsedine. L’acqua che scelgo non è mai stemperata nell’azzurro da cartolina, ma è l’acqua viziata in cui è immerso il grande polpo-correlativo oggettivo-trasfigurazione della città, che ha la sua testa a Capo Posillipo e gli ultimi tentacoli che stringono le ossa dei morti al Rione Sanità.
 
L’amore da quello filiale a quello passionale è presente in tutta la storia, amore cercato e negato, condiviso o patito e mai trovato. L’amore è spesso anche tradito?

L’amore, o meglio l’ammore in Uvaspina, è un amore molto legato alla sporcizia. Non è mai un amore puro e incondizionato, ma ha sempre dei tratti aggressivi sopiti sotto la brace. La voglia di amore dei protagonisti è sempre abortita, perché si ritrovano sempre nella stalla pur cercando recinti luminosi e spaziosi. L’amore tra la Spaiata e Pasquale si riduce a essere un amore volgare e falso, una messinscena che culmina nella scena delle zoccole di mare, quello tra Minuccia e Antonio è una chincagliera, una paccottiglia. Gli unici due tipi di amore un po’ sincero (o forse, meno falso) è quello di Uvaspina per Antonio e per sua sorella, ma quell’ammore si sporca, si incrina, viene riempito di buchi fino ad ammosciarsi, perché non ci sono le condizioni ambientali ed emotive per farlo crescere. Del resto, nel romanzo tutto marcisce e si decompone, tutto alla fine ritorna a una tomba necessaria e rassicurante.
 
Mi piace tornare sulla doppiezza dei personaggi e in particolare si inverte ciò che appare e soprattutto nei due fratelli il gioco narrativo è evidente…monica acito uvaspina

Uvaspina e Minuccia sono fratello e sorella e si trovano in quel limbo dolorosissimo di non riuscire a stare né insieme né separati, il loro rapporto non è umano perché si nutre di scatti ferini. In Uvaspina ci sono tratti femminili di Minuccia e in Minuccia c’è tanta di quella mascolinità che manca a Uvaspina. Uvaspina si femminilizza, si lascia truccare da Minuccia durante la notte del chiummo, indossa il vestito giallo, Minuccia va a trovarlo a letto di notte e gli incide vele sulle cosce, tormentandolo e dandogli piacere con le spille. Al di là di un troppo facile e ingenuo binarismo dicotomico e netto che virerebbe sul maschile-femminile, Uvaspina e Minuccia sono dei personaggi liquidi, sgocciolanti, che per definizione non si possono definire, sono al di là dell’umano e della morale, non possono essere incapsulati in niente. Oggi si direbbe queer, allora sì, ma non è questo il vero punto del romanzo.
 
Salvatore Di Giacomo e le sue poesie aleggia spesso, è un personaggio silenzioso ma fondamentale, quanto è importante per te e quanto la poesia ha un potere salvifico?

Ho voluto ritagliarmi un cantuccio per qualcosa che definirei, forse a torto, un cameo. Un cameo in grado di ricordare i fasti della poesia classica napoletana, ‘a canzone. La canzone che ha reso grande la sirena, che ha celebrato il mito della città, la sua palingenesi. Basti pensare a Salvatore Di Giacomo, Libero Bovio, Feola, Pisani, Cioffi, Bracco, e a tutto ciò che si origina dalle ballate, dalle farse, dalle frottole e dalle villanelle, per esempio la Villanella di Cenerentola, o l’opera buffa o la tarantella. Tutto questo arriva, secondo un’ottica diacronica, fino a Consiglia Licciardi, Teresa De Sio, Carosone, Totò, Eduardo, Murolo: si parte dalla classica Michelemmà fino ad arrivare a Lo Guarracino. Non credo che la poesia abbia un potere salvifico, almeno nel caso della poetica della canzone aurea partenopea: non ha intenti edificanti o moraleggianti, spesso celebra la sguaiataggine della vita, l’essere scioperati, il godimento sensoriale, il piangere e fottere, la promiscuità greco-latina, l’arte di riuscire a inventarsi la vita in mezzo a tanti guai.
 
Le esistenze vere dei personaggi, riuscire a scoprirsi è un traguardo o diventa una sconfitta?

In questo romanzo non ho tenuto molto presenti le categorie di sconfitta o traguardo. Forse perché, volendo rimanere su quest’area semantica, i personaggi perdono tutti. Nel momento in cui si scoprono, inorridiscono nel rendersi conto di ciò che vedono. Spesso decidono anche di non voler campare più, si inventano modi per fottere la vita o fottersi da soli, sono completamente dolenti, grotteschi, bizzarri, ridicoli, perché arrivano a provare anche quello che fingono.
 
Nei ringraziamenti racconti te stessa, la tua fame di amore e di scrittura e le tante persone che ti stanno accanto. Che ti ha lasciato scrivere questo romanzo e cosa ti aspetti ti regalerà?

Nei ringraziamenti finali parlo delle persone che mi sono state accanto e continuano a farlo. In particolare mi concentro sulla mia famiglia. Ho la fortuna di avere una bella famiglia numerosa, due sorelle per cui stravedo e con cui vivo in simbiosi, anche se ci vediamo poco, sono innamorata di mia mamma e mio papà. La mia famiglia è il mio cerchio magico, anche se praticamente sono sradicata da loro, viviamo tutti in posti diversi, mi sono persa un sacco di tappe della crescita della mia sorellina più piccola che ha dieci anni meno di me, non ero con lei in molti momenti in cui aveva bisogno di me e forse questo è l’unico rimpianto della mia vita. La scrittura di questo romanzo mi ha lasciato tanta consapevolezza, mi ha aiutata a definire meglio la mia fisionomia di autrice, mi ha regalato qualcosa di molto vicino all’amore, o forse lo era, perché l’ho amato come se fosse stata una persona. No, anzi, l’ho amato più di una persona. Ma, soprattutto, mi ha lasciato un senso di vuoto, una sensazione strana che credo coincida col sentirmi amputata, perché da quando non ce l’ho più tra le mani devo disciplinare i miei movimenti e prendere le misure. Ora sarà di tutti e non sarà più mio, la cosa mi fa piangere un po’, ma va bene così. Credo tanto in Uvaspina, ed è ora che scenda finalmente in mezzo alla gente.

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