È DI SCENA LA VENDETTA E LA MORTE, DI SERGIO VELITTI

COINVOLGENTE TRILOGIA AL TOR BELLA MONACA CON LA REGIA DI NELLO PEPE

RAFFAELE AUFIERO 27/04/2024
VISTO E RECENSITO
TEATRO CIVILERoma. Dalla Periferia di Roma un sussulto di rinnovato interesse per il teatro civile che ancora non si può dire sia completamente esausto o fuori moda.

Sorto e spesso confuso con la stagione dello sperimentalismo e delle “cantine” o ancora più con il teatro politico, date le implicazioni e le valenze di cui si faceva promotore, il teatro civile in Italia ha attraversato almeno un ventennio, dagli anni ’60 agli ’80, dando la anche l’opportunità a noi, critici teatrali in formazione, di potersi cimentare con vicende che il più delle volte esulavano dalla storia teatrale e pescavano nella cronaca quotidiana, dove il critico, con il suo bagaglio di cultura dei testi classici si muoveva con difficoltà, la sana difficoltà di chi si trova a registrare, a capire e aiutare a capire nuovi messaggi e formule alternative.

Questa trilogia di Sergio Velitti, rinominata dalla produzione e dalla regia TRILOGIA DI VENDETTA E MORTE è costituita da tre monologhi (Marialaò; A proposito di una signora; Grisaglia blu)  ha la sua genesi proprio in quegli anni di massima espressione del teatro civile. E ne rivendica tutti i presupposti teorici e le applicazioni sceniche a cominciare da quella più importante, il coinvolgimento emotivo dello spettatore.

Coinvolgimento indispensabile affinché il circuito tra spettatore e autore si chiuda e la formula dell’empatia sia rispettata. Ma il coinvolgimento non sarebbe possibile se le storie messe in scena su un palco privo di scenografia (se non proprio minimale: una cornice vuota, una sedia e un cartone da homeless) e in questo caso accompagnate dalla musica di Marcello Cirillo non fossero tenute insieme da un collante narrativo che la professionalità di Nello Pepe, regista Rai di lungo corso, ha saputo legittimare facendolo sembrare più un unicum raccolto in una dialettica di episodi, in una reciprocità dialogica, più che un racconto frammentato in momenti svincolati l’uno dall’altro, come i singoli monologhi, apparire nell’idea del suo autore. Una dialettica serrata quindi dove i nessi sono da ricercare in quelle che una volta venivano definite motivazioni profonde.

Qui il collante è la violenza, una violenza a tutto tondo, declinata senza accorgimenti patetici o alleggerimenti sociologici, esercitata da una società maschilista nei confronti della donna, e quello che segna il discrimine in questa trilogia tra teatro politico e teatro civile è proprio il rifiuto dell’autore di approdare a quella che sia la soluzione definitiva, assolutoria, vendetta e/o riscatto della parte offesa su quella parte di società che offende. In prima pagina infatti si legge solo il dolore, la frustrazione, la dimessa rassegnazione all’ineluttabilità della vita quotidiana delle tre donne protagoniste.

La prima, Maria Lao, nelle cui viscere tormentate da una vita al margine (quella del marciapiede), la bravissima Maria Cristina Fioretti ha saputo infondervi delle connotazioni interpretative romanesche che ci hanno riportato alla memoria la indiscussa bravura di una Gabriella Ferri con quel suo piglio fiero e la sua determinazione e la consapevole accettazione del destino che abbiamo spesso riscontrato nella Magnani. Toccando tutti i registri interpretativi in questione, dalla dolorosa comicità alla drammatica ironia, passando per la straziante normalità di un quotidiano accettato ma mai voluto.

Il livello alto di interpretazione non si ammorbidisce neppure nel secondo episodio, svolto in tandem tra la Fioretti e Maria Pia Iannuzzi, che hanno saputo coniugare senza mostrare scarti o discontinuità la figura della nobile signora avvelenata dal marito che poi si vendica dello stesso in una vicenda che alterna con perfetto equilibrio interpretativo dramma e farsa, ironia e patetismo.

Infine la vicenda tristemente annoverata tra i classici della letteratura teatrale risalente alla mitologia, quindi a colei che da madre diventa carnefice dei suoi figli, la Medea che da Euripide ad Anna Hurkmans (che ne ha riproposto, ovviamente in chiave moderna, appena lo scorso anno la vicenda) dove è protagonista questa Antonietta Gavone, vedova Cairano, una donna di 35 anni bella e prosperosa che alimenta idee di possesso negli uomini, compiacendosene.

Madre di numerosi figli ai quali non riesce a garantire una vita anche se non dignitosa almeno sufficiente alla sopravvivenza materiale, affondando le motivazione in quell’indigenza che per anni è stata la piaga della nostra nazione uscita da una guerra e da un dopoguerra ancor più affamante della guerra stessa a causa dello scatenamento delle difficoltà di sopravvivenza di coloro che erano già poveri prima e che avrebbero visto la loro miseria aumentare e riprodursi paradossalmente proprio con il benessere, quello che, come abbiamo visto, era riuscito a premiare i furbi, gli arroganti, i violenti, i sopraffattori. Disperazione, rabbia, sofferenza, frustrazione, delusione, dolore materno legato alla decisione di sopprimere la propria prole hanno dominato la scena nella variegata, intensa e completa interpretazione di Matia Pia Iannuzzi, non nuova in questa parte già collaudata, ma introiettata come a farla diventare un patrimonio espressivo della sua attorialità già matura e completa. E sicuramente convincente, a giudicare anche dalla risposta degli spettatori che hanno salutato lo spettacolo con un lungo e partecipato applauso.
 
RAFFAELE AUFIERO

DAL 23 AL 28 APRILE 2024
AL TEATRO TOR BELLA MONACA
Via Bruno Cirino, all’angolo di viale Duilio Cambellotti con via di Tor Bella Monaca
tel. 06. 2010579
 

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